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Il giorno dopo l’Apocalisse… i vizi e le virtù italiche di fronte al sacro rito del Pallone

“L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare…”. Il motto del grande Gino Bartalirimbomba in ogni bar, ogni ufficio, ogni strada d’Italia, il giorno dopo il più grande cataclisma sportivo della storia del nostro paese. Per una volta, eccezionalmente, nel nostro sito tennistico parleremo di pallone, il “day-after” la mancata qualificazione della Nazionale italiana ai Mondiali, sessant’anni dopo l’unica volta che gli azzurri non sono riusciti a centrare la fase finale di un campionato del mondo. Un cataclisma, o un’apocalisse mutuando il termine abusato in questi giorni, di cui non voglio analizzare tanto le cause, ormai sviscerate in lungo e in largo in qualsiasi giornale, sito e televisione, ma le reazioni e le conseguenze a un evento che non riguarda soltanto lo sport (la mancata partecipazione ai Mondiali graverà su tutto il movimento e l’economia per quasi un milione di euro).

Che il disastro fosse nell’aria era già evidente dopo l’umiliazione subita in Spagna, quando abbiamo affrontato i campioni europei e del mondo con un presuntuoso 4-2-4, perdendo da quel momento ogni identità di gioco e ogni certezza. Che l’Italia non abbia più un campione in rosa è sotto gli occhi di tutti, e che da quando non ci sono più i vari Totti, Del PieroCannavaro non siamo stati in grado di ottenere un buon risultato (ad eccezione della parentesi dell’Europeo di Conte) non è certo un caso. Che Gian Piero Ventura non fosse all’altezza di un ruolo così delicato è apparso palese nei 180 minuti giocati contro la Svezia, in cui ha schierato due formazioni senza senso, senza mostrare uno straccio di idea, perpetrando l’unica tattica suicida possibile contro una squadra come quella scandinava, ovvero i cross a ripetizione rimbalzati puntualmente dal muro svedese. Che d’altra parte Ventura non vada additato come capro espiatorio di questa disfatta è pacifico. La mancata qualificazione ai Mondiali è frutto di politiche federali scellerate, delle faide d’interesse delle varie società e della totale assenza di programmazione, che hanno portato alla ribalta un personaggio ambiguo e privo di qualsiasi cultura sportiva come Carlo Tavecchio, il quale ancora non ha avuto la dignità di dimettersi assieme a Ventura. Che sarebbero stati tempi bui mi fu evidente già dal 2012, quando il progetto di novecento pagine per riorganizzare il nuovo settore tecnico federale scritto Roberto Baggio, unico idolo sportivo della mia esistenza, venne stroncato e rimandato al mittente dal signor “Optì Pobà”: la classica “dinamica all’italiana”, dove chi ha il merito e i titoli deve subire in silenzio le decisioni di chi è stato messo lì a scaldare alla persona, con le conseguenze palesate a 56 milioni di italiani il giorno 13 Novembre 2017. La speranza è che il clamoroso fallimento sia lo stimolo per un azzeramento totale dei vertici e un radicale cambio di mentalità, ma se penso a quanto appena scritto, permettetemi di dubitare…

Al di là della “digressione” analitica, oggi sono rimasto colpito dalla reazione di diverse persone alla sconfitta della Nazionale, ampliata dal calderone rappresentato dai social network. L’indifferenza è un sentimento più che legittimo: se una persona non è interessata al calcio, o allo sport in generale, e si astiene da qualsiasi giudizio ha il mio totale rispetto. Ma ci sono due categorie di individui, spuntati come funghi dopo la debacle di ieri, che amplificano la mia rabbia già elevatissima dopo la sconfitta sul campo.
I primi sono coloro che prendono come pretesto la sconfitta dell’Italia per mettere al bando il calcio e affermare la superiorità di altri sport meno seguiti sul pallone: “E’ bene che l’Italia non vada ai mondiali: ci sarà più spazio per seguire la pallavolo, la scherma, il pattinaggio…” Queste persone non le capisco proprio. Una premessa è doverosa: io sono un tennista da sempre, e sono il primo a credere che il calcio dovrebbe prendere da esempio, per molti versi, dal nostro sport. Che i valori del calcio spesso siano marci, se penso al razzismo negli stadi, al business sfrenato, alla mancanza di rispetto. Ma non è beandosi delle sconfitte della Nazionale che miglioreremo il mondo del pallone. Se da una parte il calcio è pieno di vizi e di difetti, dall’altra è innegabile che sia un collante sociale enorme e importantissimo. Nel nostro paese il calcio, volenti o nolenti, è una questione assai seria. La nazione dei mille campanili, delle faziosità e dei voltagabbana ogni fine settimana si “ferma” per osservare, tutta insieme, il rito sacro pallonaro. In un paese pieno di divisioni, la nazionale è una delle poche cose che unisce tutti, soprattutto in occasione di eventi come Mondiali e Europei. Personalmente ho sempre scandito, come milioni di altri italiani, le fasi della mia vita con i campionati del Mondo: i miei primi ricordi di infanzia sono legati a Italia ’90, quelli della adolescenza ai miracoli di Roby Baggio, alle telecronache di Bruno Pizzul e alla maledetta finale di Pasadena a USA ’94.
Prima che un evento sportivo, il mondiale è un’occasione di condivisione, di stare insieme, di mostrare al mondo, da italiani, una delle poche cose che ci riesce bene. Il prossimo anno tutto questo non avverrà. Pensare che questa Estate, in assenza delle maglie azzurre in prima visione, gli schermi televisivi vengano occupati da trasmissione dedicate ad altri sport è pura utopia. Credere che i vivai delle società di pallacanestro, o di rugby, pulluleranno di nuovi giovani non più ammaliati dal calcio è un errore. La concorrenza non è tra calcio e tennis, calcio e basket o calcio e golf, ma tra cultura sportiva e “nullafacenza”… Il successo della nostra nazionale avrebbe portato un beneficio anche alle scuole tennis, tanto per fare un esempio.

Ma le reazioni che trovo più assurde e fastidiose sono quella della seconda categoria di individui, che tifano contro la Nazionale, godono della sua eliminazione, magari postano in bella vista la foto della Svezia, che non hanno mai visto nemmeno in cartolina. Io queste persone non le sopporto. Perchè è giusto essere critici, e sottolineare costantemente i lati negativi della nostra povera Italia. Il nostro Paese in questo periodo storico fa proprio fatica a farsi amare e le rimostranze di tutte coloro che vedono defraudati i propri sogni da una classe politica vergognosa sono più che giustificate. Ma cosa c’entra la Nazionale di calcio con tutto questo? Scusatemi se sono un “romantico” o un idealista, ma la Nazionale, come la bandiera e l’inno, è semplicemente un simbolo, uno dei pochissimi motivi di aggregazione del nostro sgangherato paese. E tifare contro la Nazionale è inconcepibile, perchè è come tifare contro sè stessi. E chi non stima sè stesso non può avere il rispetto di nessun altro. Essere italiano significa essere consapevoli delle contraddizioni e dei lati peggiori della nostra nazione, ma accettarla e amarla comunque, al di là dei comportamenti di altri nostri concittadini. Queste persone, che adorano tanto la Svezia, per me dovrebbero farsi una vacanza di sei mesi nella ridente cittadina di Haparanda: 4.778 abitanti a pochi passi dal Circolo Polare Artico, con diciotto ore di buio al giorno, una media di – 25 gradi. Magari a giocare a tressette insieme a Ventura e Tavecchio, visto che le uniche attività della cittadinanza locale sono la pesca e la produzione di cesti in vinile. Chissà se anche da lassù la nostra Italietta gli sarà così indigesta…

Alessio Laganà

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